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Florio, il Marsala che sfidò l’Inghilterra

Esponente di una delle famiglie più potenti d’Italia, Vincenzo Florio sbarcò a Marsala con un chiaro obiettivo, scardinare il monopolio inglese sulla produzione e commercializzazione del vino di Marsala. Nascevano così, nel 1833, le Cantine Florio e in esse il primo Marsala 100% italiano. Oggi il Cavalluccio Marino di Lampedusa custodisce una ricca collezione di annate uniche, scopriamone insieme il valore, non solo nel gusto!

È il 1773 quando il mercante inglese John Woodhouse sbarca sulle coste della Sicilia nord occidentale, viene a conoscenza del vino locale chiamato il “perpetuo”, se ne innamora e decide di spedirlo via mare in Inghilterra aggiungendovi acquavite “alla maniera del Madera”. Nasceva così il vino Marsala come lo conosciamo oggi. Cinquant’anni dopo è merito del grande italiano Vincenzo Florio la nascita della prima cantina italiana produttrice di Marsala, Cantine Florio, un luogo dal fascino incredibile giunto intatto fino ai giorni nostri. 

Per cinquant’anni, un affare inglese

Molto spesso i fatti della grande Storia hanno ripercussioni sugli usi e costumi quotidiani, e perché no anche su quello che oggi siamo abituati a mangiare e a bere. È proprio il caso del Marsala. 

Nel 1806, l’inasprimento del conflitto tra la Francia e l’Inghilterra spinse Napoleone ad emanare il famoso Blocco Continentale: nessuna nave inglese poteva attraccare in porti controllati dai francesi.

Una mossa strategica, ma con evidenti ripercussioni pratiche: basta vino di Bordeaux, di Porto e di Jerez per i salotti di Londra, tutti porti sotto il dominio francese. Non c’è dubbio, era proprio il caso di trovare qualcosa di nuovo da bere e il vino “inventato” da Woodhouse sulle coste della Sicilia borbonica parve allora un’eccellente alternativa. Nel decennio successivo, non a caso soprannominato “decennio inglese”, molti mercanti britannici si recarono a Marsala, tra cui Benjamin Ingham e i suoi nipoti Whitaker, nomi cruciali nella storia di questo prodotto.

Sarà proprio Ingham, infatti, con la sua cantina, ad aggiudicarsi il primato delle vendite per circa mezzo secolo e, al tempo stesso, a trasmettere una “impostazione capitalistica” alla campagna marsalese e forse a tutta la Sicilia. Il Marsala per Ingham non doveva più essere solo un’imitazione del Madera e dunque era necessario curare nel dettaglio ogni fase della produzione. A questo scopo stilò attorno al 1840 un sintetico decalogo intitolato “Brevi istruzioni per la vendemmia all’oggetto di migliorare la qualità dei vini” nel quale spiegava ai contadini come gestire la vigna e la raccolta al fine di preservare la fragranza dell’uva e del mosto. La qualità prima di tutto, così iniziava a delinearsi il Marsala moderno, con la sua precisa identità scolpita proprio dalle caratteristiche pedoclimatiche uniche del luogo in cui veniva prodotto.

La sfida di Vincenzo Florio

Verso gli anni trenta dell’800 il fermento sulla costa di Marsala era ormai sulla bocca di tutti così come il successo commerciale del vino che vi si produceva. In quegli anni, l’imprenditore di origini calabresi Vincenzo Florio, cresciuto a Palermo nella drogheria del padre, intuì la possibilità di successo che poteva derivare da un investimento in terra marsalese e decise di acquistare un terreno proprio a metà strada tra l’opificio di Woodhouse e quello degli Ingham-Withaker. 

Battere il monopolio britannico era certo un progetto ambizioso, ma Vincenzo Florio sapeva di poter sostenere i primi, difficili anni grazie agli altri commerci che la sua famiglia continuava ad operare, soprattutto nell’ambito del commercio spezie, della pesca e dell’industria dello zolfo. I capitali suoi e della sua famiglia vennero quindi investiti nella creazione di uno stabilimento produttivo all’avanguardia, regolato in maniera ferrea in ogni fase di produzione del Marsala e fortemente indipendente in quanto dotato di un proprio alambicco per la distillazione dell’acquavite per la fortificazione e di un proprio accesso al mare da quale, in pochi anni, un numero sempre crescente di navi – la famiglia Florio vantava infatti anche di un arsenale mercantile non indifferente – salpavano cariche di Marsala verso i mercati internazionali, ma anche verso quello italiano, totalmente ignorato dai commercianti inglesi, e che si rivelò cruciale per fare di una sfida ambiziosa una sfida vinta. Appena vent’anni dopo la fondazione, Cantine Florio era già il secondo produttore di vino Marsala, ma, pochi anni dopo, in seguito all’acquisto dell’azienda e del marchio Woodhouse, divenne definitivamente il primo produttore al mondo.

Il Marsala è un atto d’amore

Pensare che gli ingredienti del Marsala siano solo vino e acquavite è come ridurre un capolavoro pittorico a del semplice olio su tela. Molti altri fattori influiscono infatti su ogni bottiglia di Marsala: il luogo, l’ossigeno, il tempo sono a disposizione dell’enologo che, al pari di un artista, li modula sulla base della sua esperienza al fine di creare, da ogni botte, un prodotto indimenticabile. Per questo la produzione del Marsala è un vero e proprio atto d’amore. Non a caso, infatti, il primo passaggio che segna la nascita di un vino “atto a dare Marsala” viene chiamato proprio “innamoramento” e consiste nell’aggiunta dell’alcol. Un passaggio cruciale che determina la futura tipologia di Marsala tra Vergine e Superiore. Nel primo caso, al termine della fermentazione, si aggiungerà al vino solo alcol di origine vinica, nel secondo si mescola al vino anche mistella e mosto cotto. La mistella, ovvero mosto bloccato in fermentazione dall’aggiunta di alcol, è utilizzata per dosare il grado zuccherino, il mosto cotto per arricchire aromaticamente ed organoletticamente il futuro Marsala. 

Dopo l’innamoramento, è la cantina ad ospitare la storia d’amore e nel caso del Marsala Florio si tratta di oltre due ettari di pavimenti in tufo adiacenti al mare stipati con oltre 3000 botti di rovere di varia dimensione: una vera e propria città del Marsala! 

All’interno della cantina Florio nulla è lasciato al caso: tutto ciò che avviene all’esterno come le piogge intense, le burrasche, le estati roventi sono respirate attraverso il legno dai Marsala lasciati ad affinare, ognuno secondo una precisa “geografia dell’invecchiamento”. Fondamentale infatti, nella creazione di ogni Marsala Florio, è la posizione della sua botte d’affinamento rispetto al mare che più è vicino più abbassa la temperatura ambientale, accrescendo invece l’umidità “salmastra” e viceversa. Con il passare degli anni, temperatura, umidità e grandezza del contenitore influiranno anche sulla cosiddetta “parte degli angeli”, ovvero quella quota di Marsala che naturalmente evapora nel corso degli anni e il cui controllo da parte dell’enologo rappresenta un’ulteriore firma al futuro Marsala che si vorrà imbottigliare. 

Florio e il Cavalluccio Marino

Come non ci si bagna mai nello stesso fiume, non si beve mai due volte lo stesso Marsala Florio e lo sa bene Giuseppe Costa del Cavalluccio Marino di Lampedusa. Da ragazzo ascoltava con curiosità le storie del nonno che raccontava di anni passati, della grande famiglia Florio, dei suoi commerci, della sua influenza nel fare della Sicilia una grande Sicilia a partire dai suoi prodotti, come il tonno di Favignana. Da adulto, appassionatosi di vino, ha cominciato a ricercare i fasti della Sicilia dei Florio attraverso la ricerca di annate introvabili, imbottigliamenti speciali, etichette quasi museali di Marsala come le riserve risalenti al 1939 e al 1944. Bottiglie che oggi creano all’interno della sua cantina Diapason una collezione d’eccezione a disposizione di veri appassionati di questo prodotto così unico ed affascinante. 

Una volta accomodati al tavolo, a fine cena, chiedete a Giuseppe di concedervi un assaggio di questo oro siciliano:

finirete trasportati sull’onda dei ricordi in una Sicilia fatta di sfarzo e di infinito coraggio, perché come spesso capita con i grandi vini, la loro storia non si limita al contenuto della bottiglia. Per Giuseppe e un po’ per tutti noi, Florio infatti non è solo la storia del Marsala, ma la storia di una grande famiglia e il racconto in bottiglia di una delle più grandi rivincite del popolo siciliano.

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Soave, le sfumature venete del bianco

C’è un territorio in Veneto dove il colore bianco rivela mille affascinanti sfumature: è la Soave DOC con il suo vitigno principe la Garganega.

La selezione di etichette della carta del vino del Cavalluccio Marino di Lampedusa è così ampia da raggiungere anche le provincie più lontane dalla Sicilia, ognuna imprescindibile nel racconto che Giuseppe Costa vuole fare del panorama enologico italiano. Una di queste piccole zone produttive è il comprensorio della Soave DOC, con il suo antico terroir vulcanico e il suo vitigno Garganega che sulle colline veronesi trova casa d’eccellenza. Vini bianchi, ma capaci di declinarsi in tante curiose sfumature.

Un vulcano, un borgo, un vino

La Soave DOC si trova esattamente a metà strada tra Verona e Vicenza. Per cominciare la scoperta di questo comprensorio non esiste modo migliore che una visita al piccolo borgo che ne ha dato il nome. Il centro storico di Soave è un gioiello medievale perfettamente conservato, a partire dalle mura ghibelline che lo circondano fino all’imponente Castello Scaligero che lo domina. Già villaggio in epoca romana, la fondazione del borgo si fa risalire all’epoca longobarda, e in particolare ad una tribù di Svevi che chiamati nell’italiano dell’epoca Suaves sarebbero anche all’origine del toponimo.

Lungo le strade che portano a Soave noterete la presenza di vigneti a perdita d’occhio, questo piccolo areale è infatti famoso per essere uno dei più densamente vitati d’Italia. I terreni presentano molte sfaccettature e sono suddivisi in quattro macroaree principali. La zona ad Est dei Monti Lessini è di franca origine vulcanica con terreni tufacei-basaltici coltivati fin dall’antichità per la loro elevata fertilità: questa è la zona storica del Soave capace di dare vita a vini di eccezionale complessità e longevità. L’eleganza è invece caratteristica saliente dei vini derivanti dalla sottozona della collina calcarea, nella zona occidentale della denominazione. Specularmente alla collina, anche in pianura si riconoscono una sottozona vulcanica e una calcarea.

Tale complessità geologica ha stimolato molto interesse tanto che Consorzio del Soave DOC ha avviato nel 2000 un progetto di zonazione che ha portato alla definizione di ben 33 cru. Per questo la degustazione dei vini di Soave può rivelarsi estremamente affascinante, come a dire che anche il colore bianco, assoluto e puro per eccellenza, può invece declinarsi in molte più sfumature gustative del previsto.

Garganega and co.

Il vitigno maggiormente utilizzato nella produzione del vino Soave è la Garganega. Come sempre rintracciare i genitori biologici delle uve può essere più complesso della trama di un giallo di Agatha Christie, ma non meno appassionante. Nel caso della Garganega l’origine etrusca sembra essere quasi certa vista la diffusione del suo allevamento a pergola, sistema più alto di quello greco e diffuso in tutto il Nord Italia proprio dagli Etruschi. Dal punto di vista genetico invece, a sorpresa, recenti studi hanno individuato come parente stretto di questa varietà il vitigno siciliano Grecanico, aprendo così la strada a nuove teorie sulla sua diffusione in Europa.

Tipico appellativo per la Garganega è quello di uva d’oro. Da un lato per il suo diffuso utilizzo per la produzione dei dorati vini dolci dei retici, ma certamente anche per il suo aspetto in pianta. La Garganega, infatti, ha una durata vegetativa molto lunga e giunge a piena maturazione solo a metà ottobre quando gli ultimi raggi di sole autunnale fanno brillare sulla sua spessa buccia bellissime sfumature dorate.

Raccolta a maturazione la Garganega non presenta una spiccata acidità, ma rivela il suo carattere in un delicato equilibrio di intensità e pienezza gustativa. Anche dal punto di vista aromatico quest’uva si distingue per delicatezza ed eleganza con le sue tipiche note di mandorla e fiori bianchi talvolta impreziosite da ricordi di frutta e di spezia, soprattutto la cannella e la ciliegia nei vini provenienti dalla zona storica del Soave grazie all’elevata concentrazione di benzonoidi (loro precursori aromatici) presente nei suoli vulcanici.

Da disciplinare i vini di Soave possono essere prodotti fino ad un 30% da altri vitigni a bacca bianca. Storicamente si tratta della varietà Trebbiano di Soave, conosciuto anche come Turbiana nella zona della Lugana, che nei vigneti più antichi del Soave, alcuni ultracentenari, si ritrova ancora piantato accanto ai filari di Garganega a testimonianza di un vino che veniva “costruito” in vigna ancora prima che in cantina. A partire dagli anni ’80 si è dato spazio anche a vitigni internazionali come Chardonnay e Pinot bianco, inaugurando una nuova chiave interpretativa del vino di Soave capace di avvicinarsi a testa alta ai migliori vini bianchi d’Europa.

La visione di Roberto Anselmi

Capita spesso che la fama di un vitigno e di un vino passi per un’interpretazione innovativa e “fuori dal coro” di chi conosce il territorio da sempre. È il caso dell’affascinante storia di Roberto Anselmi. Nipote d’arte, terminati gli studi in città, Roberto decise a metà degli anni ’70 di rientrare a casa e ricomprare i terreni che suo nonno era stato costretto a vendere a causa della guerra: di nuovo il vino Anselmi sarebbe stato prodotto con le uve di proprietà. Ad oggi la rivincita di Roberto si può dire più che compiuta, con 70 ettari distribuiti nelle zone più storiche e vocate del Soave.

Come ogni grande interprete Roberto non si è limitato a recuperare i vigneti, ma vi ha introdotto un diverso sistema di produzione, abbandonando la pergola e le elevate produzioni a favore dell’allevamento a Guyot, pochi grappoli per pianta, grande concentrazione di sapore e carattere. Inoltre, decise di scommettere su diversi vitigni internazionali ottenendo in cantina un vino di Soave unico ed inimitabile, strettamente personale e per questo – non senza una punta di provocazione – riportato in etichetta solo come Veneto IGT San Vincenzo. A volte la storia del vino prende pieghe inaspettate: uno dei più importanti vini di Soave che ha attivamente contribuito alla rivalutazione della nomea internazionale del territorio, non è un Vino Soave DOC.


Non resta che consigliarvi di scovare una delle bottiglie di San Vincenzo conservate nella cantina del Cavalluccio Marino di Lampedusa.
Un vino bianco di carattere e intensità, prodotto al 70% da Garganega e per il restante da Chardonnay e Sauvignon. Note fruttate generose ma mai eccessive che aprono un sorso sapido e minerale, vibrante di energia come i terreni vulcanici da cui proviene.

Un grande bianco capace di raccontare al mondo le qualità eccezionali di un territorio piccolo, ma entusiasmante. Un vino che è il racconto di un grande sapore italiano, ma anche dell’importanza del tornare sempre là dove stanno le proprie radici.

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Mosella, una regione per intenditori

In Germania, lungo il corso del fiume Mosella, viene prodotto uno dei vini bianchi più complessi e longevi del mondo, immancabile nella cantina di ogni intenditore: il Riesling Renano.

E voi lo conoscete?

In Germania c’è solo la birra, i tedeschi il vino proprio non lo sanno a fare… a chi non sarà capitato di sentirlo dire? Ecco, nulla di più falso! Un pregiudizio che è tempo di sfatare accompagnandovi nella storia della regione della Mosella e del suo straordinario Riesling Renano. Anche se il modo migliore per cambiare idea è senz’altro a tavola, lasciando a Giuseppe Costa il piacere di consigliarvi una delle splendide etichette tedesche conservate nella cantina del suo Ristorante Cavalluccio Marino di Lampedusa.

Un po’ di geografia: la valle della Mosella

I confini tra le nazioni sono stati tracciati dall’uomo e la natura spesso se ne frega altamente e semplicemente fa il suo corso. Nulla di più vero per il fiume Mosella che nasce in Francia dal Massiccio dei Vosgi, lambisce il Lussemburgo, quindi entra in Germania fino a congiungersi con il fiume Reno che lo porterà dritto al Mare del Nord. Duecento chilometri tedeschi, dalla città di Treviri a quella di Coblenza, che danno il nome all’omonima regione della Mosella.

Lungo il corso della Mosella, e quello dei suoi due affluenti Ruwer e Saar (rassegnatevi in questo articolo troverete molte parole per noi italiani impronunciabili!), le vigne si susseguono a perdita d’occhio. Un paesaggio mozzafiato con due peculiari caratteristiche. La prima: qui viene coltivata solo una varietà d’uva. Ben distante dalla vigna mista all’italiana, l’ordine e la precisione tedeschi hanno stabilito, fin dai tempi più antichi, che solo questo prestigioso vitigno meritasse la coltivazione nella culla naturale della Mosella. È qui, infatti, che nascono da centinaia di anni i migliori Riesling al mondo. La seconda caratteristica: sono vigne terrazzate. Non si tratta infatti di un fiume circondato da pianura, ma da alte colline che l’amore e la tenacia dell’uomo hanno letteralmente plasmato, scolpendole in ripidissimi terrazzamenti che rendono oggi il paesaggio della Mosella un esempio mondiale di viticultura eroica.

Un microclima davvero particolare, dove molte delle varietà d’uva più meridionali non troverebbero di che sopravvivere (soprattutto pensando ai rigidi inverni continentali con punte di -20 gradi), eppure congeniale alle piante di Riesling che resistono bene al freddo, hanno una maturazione tardiva e che, grazie al gioco di escursioni termiche che si instaura tra il fiume e le pietraie scoscese delle sue rive, qui e solo qui si esprimono con una potenza ed un corredo aromatico unici ed inconfondibili.

Unico, anche ad occhi chiusi

Anche se servito in una bottiglia coperta ed in un calice nero, il Riesling Renano è una di quelle uve capaci di farsi scoprire molto in fretta da un degustatore attento proprio perché caratterizzato da un’impronta olfattiva e gustativa molto riconoscibile.

Tra gli indizi principali che anche ad occhi chiusi dovrebbero subito far pensare ad un Riesling moselliano è il bouquet aromatico. Un vero circo di sorprese, addirittura spiazzanti per chi si trovi alle prime armi della degustazione. Il Riesling è considerato un vitigno fruttato, con spiccata tendenza all’evoluzione in base al suo invecchiamento: lime e mela nei vini giovani lasciano spazio a miele e albicocca nei vini più invecchiati. Il tutto sempre accompagnato da una forte mineralità dovuta al terreno: di antica origine vulcanica e ricco di ardesia. Ma è senza dubbio la famigerata nota di idrocarburo a rendere questo vitigno subito identificabile e talvolta spiazzante ai principianti. Eppure, proprio l’intensità di quella nota di goudron, per dirlo alla francese – gomma, petrolio – è sintomo della qualità dell’etichetta.

Altro indizio fondamentale per scoprire un Riesling della Mosella ad occhi chiusi è l’acidità. Ma capiamoci: tanta acidità, circa il doppio rispetto a quella di qualsiasi vitigno bianco italiano, tanto più spiccata tanto più giovane l’età del vino. Un conservante naturale, sia dell’acino sulla pianta, sia del vino una volta prodotto. I Riesling tedeschi sono infatti tra i bianchi più longevi al mondo, buoni ed espressivi anche a 40 anni dalla vendemmia.

Con un poco di zucchero… dipende

Un’acidità spiccata, a tratti scomoda. Come si coniuga un tratto così estremo con il vino emblema mondiale dell’equilibrio? Innanzitutto, i migliori Riesling vengono da vigne esposte verso Sud al fine di favorirne la maturazione, i vignaioli da generazioni si tramandano metodi di potatura e diradamento dei grappoli per concentrare il frutto, si esegue sempre una vendemmia a piena maturazione. Ma non finisce qui, perché in Mosella esiste da sempre uno stile tradizionale che prevede di vinificare il Riesling con un po’ di zucchero.

Aspettate a storcere il naso, perché, per quanto possa ritenersi una pratica lontana dalle nostre, bisogna avere ben presente il contesto. Primo fra tutti il clima, il freddo già ad ottobre e novembre che tende a bloccare precocemente le fermentazioni lasciando un residuo zuccherino – non zucchero aggiunto quindi – che diventa l’ingrediente perfetto per bilanciare l’estrema acidità del frutto. Le durezze dell’acidità, infatti, trovano così nella dolcezza delle naturali morbidezze capaci di cesellare un bilanciamento gustativo perfetto che è poi una delle cifre distintive di questo capolavoro enologico per intenditori.

Secondo la tradizione, un ulteriore elemento incaricato di cedere morbidezze al Riesling è la scelta di raccogliere e vinificare grappoli attaccati dalla botrytis cinerea (proprio quella dei Sauternes). Una muffa nobile, capace di svilupparsi solo in determinati equilibri microclimatici, responsabile di un naturale appassimento dell’acino in pianta.

Va detto però che nulla è per sempre e che soprattutto la storia e il gusto del vino sono in continua evoluzione. Così se da un lato persistono produttori integralisti del “un poco di zucchero”, la recente moda di bere vini a più basso grado alcolico e con una acidità elevata, sta portando molti vignaioli, specie dalla nuova generazione, a sperimentare vinificazioni secche e senza botrite. Si ottengono così Riesling diversi, per certi versi più moderni, in ogni caso non paragonabili tra loro. Per un oste come Giuseppe Costa impossibile scegliere tra i due stili, meglio averli entrambi e dedicarli a momenti differenti della giornata: l’aperitivo più affine a Riesling giovani e dalla spiccata acidità, Riesling maturi e zuccherini, invece, perfetti per un plateau di formaggi o un dolce complesso.

Esiste una classificazione per non sbagliare

Esistono dunque Riesling secchi, dolci, botritizzati… difficile orientarsi davanti ad una carta del vino. Ecco allora che può tornare utile conoscere il sistema di classificazione tedesco – sempre quei nomi impronunciabili che dicevamo prima!

In Germania esistono tre livelli di identificazione: il VDP ovvero vino da tavola, i Qualitätswein ovvero vini di qualità provenienti da una regione (sempre indicata in etichetta) e i Prädikatswein ovvero vini di qualità superiore. All’interno dei Prädikatswein si distinguono sottocategorie basate sul grado di maturazione dell’uva al momento della vendemmia e sul fatto che gli acini vengano colpiti o meno dalla botrytis.

Si parte dai Kabinett, vini prodotti con uve a parziale o totale maturazione, possono essere sia secchi (Trocken) sia semi-dolci, e sono generalmente freschi e a basso contenuto alcolico. Se le uve sono state raccolte più tardivamente di parla allora di Spätlese, anche in questo caso qualora il vino non presenti zuccheri residui verrà indicato in etichetta come Trocken. Grappoli selezionati a mano, solitamente molto maturi, talvolta attaccati dalla botrite, danno origine ai Riesling Auslese, che possono essere Trocken, ma è piuttosto raro. Leggere invece l’indicazione Beerenauslese o Trockenbeerenauslese deve immediatamente far pensare a vini dolci ottenuti da uve estremamente mature nel primo caso, grappoli in stato di appassimento in pianta per il secondo (Trocken significa anche asciutto, e il termine in questo caso si riferisce all’uva e non alla presenza o meno di zucchero nel vino) quasi sempre in presenza di botrite.

Altri termini indicati in etichetta che può essere utile conoscere sono riferiti alla vigna di provenienza: Grösses Gewächs ad indicare i Grand cru, Alte Reben sta per vigne vecchie, mentre Gold Kapsel per i migliori vigneti, infine Lange Gold Kapsel per l’eccellenza dei vigneti.

Esiste infine la leggendaria categoria degli Eiswein – ora riprodotti in diverse zone d’Europa, ma originari storicamente proprio della Mosella – ovvero quei rari e preziosi Riesling ottenuti da uve lasciate appassire in pianta, naturalmente congelate sul tralcio dai primi freddi invernali e quindi vinificate per ottenere un prodotto molto dolce, privo di zuccheri aggiunti. Che piacciano o meno, gli Eiswein, i vini di ghiaccio, rappresentano la quintessenza dello spirito del Riesling tedesco, per la loro naturale dolcezza e concentrazione sempre in perfetto equilibrio sull’acidità e l’idrocarburo tipici del vitigno. Vini da meditazione dal fascino infinito, incrementato dalla loro imminente estinzione: il cambiamento climatico degli ultimi decenni sta infatti rischiando di compromettere molto seriamente la loro produzione.

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Vini di Sicilia: il vino dello Stretto

Il lembo Nord orientale della Sicilia è terra di vini rossi delicati ed eleganti, racchiusi sotto il nome della poco nota denominazione Faro. Scopriamone la storia e qualche imperdibile produttore.

Sconosciuta a molti, la piccola denominazione siciliana Faro DOC si estende attorno alla provincia di Messina, nell’estremo nord orientale dell’isola, un crocevia naturale che divide il Mar Ionio a Est e il Mar Tirreno a Ovest. Per questo, se dovessimo trovare un soprannome per la denominazione Faro è senza dubbio quella di “Vino dei due mari”.

Mare che si sente fino nel bicchiere. Infatti, una forte impronta mediterranea, salata e rinfrescante caratterizza il sorso dei rossi leggeri, succosi e profumati che vanno sotto il nome di Faro DOC. Vini che, per la limitata estensione della DOC da cui provengono, hanno sempre conservato un certo fascino “di nicchia”, ma che rappresentano un tassello fondamentale del patrimonio enologico siciliano: impensabile non trovarli nella carta del vino del Ristorante Cavalluccio Marino di Lampedusa, figuriamoci non provarli!

Dai greci al vino di Shakespeare

Il territorio della denominazione Faro può vantare una tradizione millenaria nella coltivazione della vite. Come per altre zone della Sicilia, la viticoltura arrivò qui grazie ai Greci ed in particolare grazie alla popolazione dei Pharii che colonizzarono il territorio che oggi corrisponde grossomodo alla provincia di Messina. E proprio all’antica popolazione del Pharii si fa risalire il nome di Faro, anche se per altri l’etimologia di questa denominazione potrebbe invece risalire all’antico appellativo dello Stretto come Faro di Messina.

Vini prodotti fin dall’antichità, dunque, e che conobbero un eccezionale successo nel corso dei secoli tanto da solcare il Mediterraneo alla volta dell’Europa. Il Faro era conosciuto in Inghilterra come dimostra il fatto che il vino citato da Shakespeare nella sua tragicommedia “Molto rumore per nulla” fosse, molto probabilmente, proprio il Faro. Era conosciuto in Francia, dove furono a lungo esportati per “tagliare” ed irrobustire i vini di Borgogna e Bordeaux.

A cosa si deve questa fortuna? Un ruolo cruciale lo gioca, senz’altro, il microclima favorevole di questa parte della Sicilia, con i colli Peloritani, il mare e il gioco di venti provenienti da Ionio e Tirreno a creare umidità e forti escursioni termiche. Fondamentale però è anche la tradizione vitivinicola di quest’area, produttori che da sempre lavorano con cura ed accortezza, tramandando il loro sapere e la loro volontà di produrre vino di alta qualità.

Ristorante Vini di Sicilia - Faro - Vini dello stretto

Dal 1976, una DOC in rosso

Prima denominazione del messinese registrata già nel 1976 (quella del Mamertino è solo del 2004), la Faro DOC è caratterizzata dalla possibilità di vinificare solo varietà a bacca rossa. Alcune varietà sono tradizionali siciliane, altre invece, essendo questo tratto di Sicilia così tanto vicino al continente, arrivano proprio dalla Calabria, come il Gaglioppo, o da più lontano come il Sangiovese. Ecco di nuovo il carattere “tra i due mari” del vino Faro!

Per disciplinare però le uve siciliane devono avere un ruolo dominante (mai inferiore all’85%) e non mancano le cantine che scelgono di vinificarle in purezza, in particolare, l’uva più utilizzata per il Faro DOC è il Nerello Mascalese a cui spesso si accompagnano più piccole percentuali di Nerello Cappuccio. Per intenderci, esattamente lo stesso blend che ha fatto la fortuna dei rossi prodotti sulle pendici dell’Etna (conoscete i vini di Firriato a Cavanera? Leggetene qui.).

L’uva più antica inclusa nel disciplinare della Faro DOC è invece il vitigno Nocera, l’uva rossa che, secondo la testimonianza di molti testi storici, era la più diffusa nell’areale ai tempi dei romani. Oggi, invece, ne rimangono pochi ettari coltivati: cosa è successo? Il Nocera è rimasto vittima di una “doppia moda”, la prima quella internazionale che lo ha visto sfavorito rispetto a famosi vitigni come il Pinot Nero, il Cabernet o il Merlot. L’altra è una moda “interna” dovuta all’escalation di fama e di mercato compiuta dai vicini vini dell’Etna, prodotti come dicevamo dal Nerello Mascalese e Cappuccio, che così hanno via via soppiantato l’antico Nocera molto meno commerciale.

Agricola Palari, il portabandiera della Faro DOC

Se gli anni ’80 rappresentano un periodo di eccezionale benessere per l’Italia, lo stesso non può dirsi per il Faro DOC che proprio nella decade ‘70-‘80 conobbe il culmine del suo declino cominciato nel secondo dopoguerra. Chi ha continuato a produrre lo faceva su piccoli appezzamenti e destinava il vino al solo consumo domestico e familiare, con quella resilienza tipicamente siciliana. Tra loro, l’architetto Salvatore Geraci non fa eccezione, innamorato del vino di casa sua mai avrebbe pensato però di farne un mestiere fino ad un fortunato incontro.

Fu infatti il grande gastronomo e giornalista Luigi Veronelli a rivelare a Salvatore il potenziale del suo vino ed a esortarlo ad imbottigliarlo, mettendolo in contatto con l’enologo piemontese Donato Lanati. I terreni della famiglia di Salvatore si trovavano a Santo Stefano Briga, pochi ettari letteralmente a picco sul mare: un dislivello di 500 metri in appena 5 chilometri, pendii ripidi, terrazzamenti a pietra, antiche vigne tutte ad alberello, da sempre solo lavorazioni manuali. Caratteristiche così peculiari che convinsero Lanati a sposare subito il progetto: nasceva così Agricola Palari e il “rinascimento” della DOC Faro.

Oggi con i suoi sei ettari, Agricola Palari è una delle realtà più interessanti da visitare sul territorio messinese anche per la bellezza della villa settecentesca che la ospita. Tra i filari Nerello Mascalese e Cappuccio, ma anche il Nocera ed alcune varietà praticamente scomparse come l’Acitana e la Galatena. Una scelta coraggiosa che si riflette nel carattere intenso dei vini Palari, esperienza piena di quello che il territorio Faro ha dato e può dare.

Ristorante con cantina Vini di Sicilia

I giovani della Faro DOC

A partire dalla scommessa di Agricola Palari, il fascino della antica storia del messinese ha richiamato negli ultimi anni alcuni giovani realtà produttive a tornare ad investire sul nome Faro.

È il caso de Le Casematte, nata nel 2011 sulle prime colline di Messina, nei pressi di tre fortini risalenti alla Prima e Seconda Guerra Mondiale, da cui il curioso nome dell’azienda. Fondatore è il commercialista Gianfranco Sabbatino arrivato a Faro per occuparsi della liquidazione di un’azienda vinicola della quale però si innamora al punto da acquistarla dando vita al sogno che stava coltivando di diventare produttore di vino. Di lì a poco gli si affianca nel progetto anche l’amico e calciatore toscano Adrea Barzagli e l’azienda inizia a svilupparsi fino ai 14 ettari attuali. Il loro impegno li premia nel 2019 con l’arrivo dei 3 bicchieri assegnati dal Gambero Rosso al Faro DOC annata 2017, una bottiglia che non può mancare nella carta del vino del Cavalluccio Marino di Lampedusa.

Sempre a picco sullo Stretto di Messina si trova la piccola realtà Bonavita di Giovanni Scarfone. Appena tre ettari suddivisi in tre ripidi appezzamenti, vigne dai 10 agli 80 anni. La filosofia di Giovanni e della sua famiglia è chiara: essere interpreti di un territorio nel pieno rispetto della vigna dove non utilizzano alcuna sostanza chimica o di sintesi e manipolando il vino il meno possibile a partire dalla scelta di svolgere solo fermentazioni spontanee.

Una visione produttiva che si rispecchia nei vini di Bonavita che prediligono la leggerezza, la salinità, la beva e la freschezza. Ne è esempio il vino più rappresentativo dell’azienda, il Rosato, che trovate nella carta del Cavalluccio Marino di Lampedusa. Per produrre questo vino, il mosto delle tre uve tradizionali del Faro sosta una notte sulle bucce secondo la tecnica tipica dei cerasuoli. Ne risulta un rosato dal colore inteso, arricchito da una leggera trama tannica che va con maestria ad esaltare il frutto e il sale, i veri protagonisti nel bicchiere. Il Rosato di Bonavita è difficilmente definibile, per sua natura cangiante, anche di annata in annata. 

Passato e futuro insieme, il Faro che ci auguriamo di continuare a bere ancora per molti, molti anni.

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Sassicaia: oltre il Sangiovese

Un vino iconico, una grande storia toscana nata dai sassi, dai matrimoni, dai fortunati incontri e da una incredibile intuizione.

Quante volte avrete sentito parlare di Chianti, di Nobile di Montepulciano o di Brunello? E’ il vitigno Sangiovese ad accumunarli tutti e per questo ad esser il vino rosso più conosciuto della Toscana. 

Esiste però anche una Toscana che ha dato i natali ad uno dei vini italiani più famosi al mondo che – udite udite – non contiene neppure una goccia di Sangiovese: il Sassicaia, la Toscana oltre il Sangiovese.

E come ogni grande cantina quella del Cavalluccio Marino di Lampedusa non poteva non conservare preziose bottiglie di diverse annate di questo capolavoro italiano. Un grande rosso figlio dei sassi, dei matrimoni, dei fortunati incontri e di una incredibile intuizione.

Dalle paludi ai cipressi che alti e schietti 

Proviamo a delineare innanzitutto le coordinate geografiche del grande affare di famiglia che andiamo a raccontare. 

150 chilometri a Sud di Firenze, 95 a Nord di Grosseto, 9 chilometri dalla costa del Mar Tirreno: ecco dove collocare il piccolo borgo di Bolgheri. Sì, proprio quello dei cipressi “alti e schietti” descritti dal poeta Giousè Carducci. Ma ci arriviamo tra un attimo. 

Fin dall’antichità, la zona è stata ricca di insediamenti, i più importati certamente quelli etruschi che qui si insediarono per secoli diffondendo anche viticoltura, ben prima dei Greci nel Sud d’Italia e ben prima dell’Impero romano. Bolgheri, quindi, è una delle prime aree in Europa in cui la vite sia stata coltivata!

Un entroterra per certi versi difficile, con ampie paludi, che attorno all’anno mille divenne dominio longobardo e tra loro Walfredo, capostipite della famiglia della Gherardesca (quella del dantesco Conte Ugolino per intenderci!) che da quel momento in poi avrebbe sempre guidato lo sviluppo del territorio. 

Infatti, molti secoli più tardi, fu proprio il generale Guidalberto della Gherardesca a piantare a metà dell’800 il famoso viale di cipressi – oggi monumento nazionale – e ad occuparsi di dare nuovo slancio alla viticoltura, soprattutto nell’area pianeggiante di San Guido, mediante anche numerose opere di bonifica.

Bolgheri, un affare di famiglia.

Gli avanzamenti agrotecnici di Guidalberto furono bruscamente interrotti dalla nuova e invincibile malattia “americana” della fillossera che in meno di cento anni spazzò via i vigneti di quasi tutt’Europa.

Tornati quasi al punto di due secoli prima, come spesso avviene nel corso della Storia, a ridare slancio alla vita di Bolgheri e dei Della Gherardesca c’è un matrimonio, anzi due.

Nel 1930 il Marchese Mario Incisa della Rocchetta, piemontese da un lato e romano di discendenza Chigi dall’altro, si trasferì in Toscana come sposo della Contessa Clarice della Gherardesca. Nello stesso anno, la sorella di Clarice, Carlotta, si unì in matrimonio al Marchese Niccolò Antinori. 

Ed è così che nello stesso anno le sorti di Bolgheri divennero un grande affare di famiglia, infatti, nel corso del Novecento, il binomio Incisa-Antinori, tra solidarietà e piccoli conflitti, promuoverà la trasformazione di un’area vocata alla viticoltura fin da tempi antichissimi, a qualcosa che al giorno d’oggi ha tutti i connotati del mito. 

Sassicaia, l’intuizione di mescolare i vini.

Mario Incisa della Rocchetta, forte degli studi in agraria a Pisa e pervaso dal sogno di mettere in atto un’agricoltura all’avanguardia nel pieno rispetto della Terra, trovò a Bolgheri il paesaggio perfetto per la sua realizzazione. 

Infatti, da grande appassionato di vino francese, in particolare di Bordeaux, Mario intuì una singolare somiglianza morfologica tra la zona di Graves e il terreno ricco di sassi della Tenuta San Guido della moglie Clarice. Decise quindi, nel 1942, in una zona dove i vini rossi che si producevano erano per lo più rustici, di provare ad impiantare cloni italiani di Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, selezionati dalla tenuta del Duchi Salviati a Migliarino. 

Mario decise, quindi, di abbandonare lo stile in purezza tipico dei gradi vini piemontesi, fino ad allora i più apprezzati sul mercato, per sfruttare invece la francese arte di “mescolare i vini”, ovvero la pratica di assemblare, al termine della vinificazione, studiate percentuali di Cabernet Sauvignon e Franc nel cosiddetto taglio bordolese.

A partire dal 1944 ottenne le prime bottiglie del suo nuovo vino che, per i caratteristici ciottoli presenti nel terreno, decise di chiamare Sassicaia. Le prime annate andarono ad esclusivo consumo della famiglia, fin quando il figlio Niccolò intuì il potenziale delle bottiglie del padre e chiamò in azienda un promettente enologo piemontese che lavorava per suo cugino Piero Antinori, Giacomo Tachis, il quale cominciò ad applicare le sue conoscenze sui vigneti di San Guido.

Diversi e speciali… Supertuscan

Il taglio stilistico di Tachis, amante della fermentazione malolattica e della barrique, plasmò l’originale intuizione del Marchese. Frutto di questa promettente collaborazione tra menti e palati sopraffini è la l’annata di Sassicaia del 1968, la prima ad entrare in commercio.

Appena due anni dopo il critico Gino Veronelli contribuì alla diffusione del Sassicaia definendolo: “Ben vestito e brillante, bouquet fitto e contegnoso in sé, di non comune scontrosa eleganza … nerbo consistente nella stoffa ben strutturata.” 

Ma era scritto nel destino del Sassicaia che il suo successo superasse i confini nazionali. Infatti, con l’annata 1985 arrivarono, per la prima volta per un vino italiano, i 100 centesimi assegnati da Robert Parker, grazie ai quali il vino del Marchese firmò il suo definitivo ingresso nella Storia.

Un successo che presto in molti produttori vollero replicare iniziando a chiamare Giacomo Tachis in consulenza presso le loro aziende. La famiglia del Sassicaia così, in pochi anni, iniziò ad avere molti altri fratelli sparsi in diverse zone della Toscana, come Solaia e Tignanello.

Secondo uno di quei tipici paradossi tutti all’italiana, nonostante il successo registrato, questo nuovo tipo di vino poteva essere commercializzato solo come IGT, in quanto risultava impossibile farlo rientrare nei disciplinari di produzione della zona. Così, per il mercato nazionale, ma per lo più estero, venne coniato il termine di fantasia Supertuscan: vini diversi, più possenti e muscolosi del tradizionale vino toscano e per natura dotati di fascino e di un potere superiore alla media, come dei veri super eroi del vino.

Anche in Italia, un modello alla francese

Si dovrà attendere quasi trent’anni per veder riformata la DOC Bolgheri affinchè renda ammissibili, tra gli altri, vini rossi che utilizzano uve come Cabernet e Merlot. Allo stesso tempo, un ruolo di primo piano viene riservato proprio al capostipite dei Supertuscan, definendo una speciale Sottozona Sassicaia che precisi i limiti territoriali a ridosso dell’abitato di Bolgheri in cui poter produrre questo vino. 

Un distinguo importante riservato ad uno dei vini rossi più importanti d’Italia che verrà ultimato con una decisione più unica che rara nel panorama del vino italiano: nel 2013 Bolgheri Sassicaia diventa DOC a se stante. Sul modello dei grandi cru francesi, i terreni della denominazione Bolgheri Sassicaia ricadono tutti nella Tenuta San Guido e sono ad utilizzo esclusivo della famiglia Incisa della Rocchetta per il suo vino corrispondente. 

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Dalla Sicilia all’Ungheria: c’è aria di novità in cantina!

Nel 2023 la Cantina Diapason di Cavalluccio Marino a Lampedusa si arricchisce di oltre 200 etichette, perché per Giuseppe nessuna missione è impossibile!

Aprile dolce dormire? Nella cantina Diapason non si direbbe proprio! In questi giorni che anticipano l’apertura, Giuseppe e il suo staff, infatti, sono al lavoro più che mai per far posto alle etichette che troverete nella nuova carta del vino del Cavalluccio Marino di Lampedusa. 

Cantina Lampedusa - Cavalluccio Marino

Le novità, Made in Sicily

Si comincia con alcune scoperte tutte Made in Sicily. Partiamo dalla provincia di Agrigento, dove, nel comune di Realmonte, si trova Borgo Giallonardo che oltre ad offrire una calda ospitalità nel suo Relais è, da molte generazioni, produttore di vino artigianale, sincero interprete del suo territorio affacciato sul mare aperto. Pochi ettari e poche etichette nello spirito di una produzione quasi familiare che oggi salpa il Mediterraneo per approdare a Lampedusa.

Dopo una obbligatoria visita ai Templi di Agrigento, spostandosi verso l’entroterra si trova, nella valle di Casteltermini, l’altra novità agrigentina: Luna Sicana. Nata nel 2008 con la volontà di raccontare il gusto siciliano nel mondo, Luna Sicana sceglie di farlo nel miglior modo possibile, ovvero scegliendo la produzione biologica certificata. Diverse etichette oggi descrivono il loro cammino, tra cui lo Chardonnay Orè che più di tutte saprà custodire un territorio nel tempo.

Ed è proprio parlando di Chardonnay che non può mancare la presentazione della neonata etichetta in casa Planeta, una delle più importanti realtà del vino siciliano in Sicilia e nel mondo. Didacus è un vino dedicato dall’azienda a niente meno che al suo fondatore Diego come tributo alla sua intraprendenza quando negli anni ’80 scelse di piantare Chardonnay al posto delle varietà tradizionali per confrontarsi con le grandi regioni vinicole d’oltralpe e con la volontà di “porre nuovamente la Sicilia sulla mappa del buon vino”. Didacus, vezzeggiativo usato dal padre per Diego, è oggi eredità e futuro, memoria e visione. Un grande bianco siciliano.

Si prosegue di isola in isola, spostandoci nelle Eolie al largo della costa messinese. Ed è a Salina, cuore dell’arcipelago, che i ristoratori e imprenditori Luca Caruso e Natascia Santandrea hanno intrapreso la sfida di fondare la loro cantina Eolia. Appena quattro ettari di terreno, frazionati in nove appezzamenti, quasi tutta Malvasia delle Lipari con qualche filare di Catarratto e Insolia. Due le etichette, M come Malfa abitato dove si trovano le vigne e V come Valdichiesa, piccolo cru di Malfa. Un’autentica rarità per appassionati, da non lasciarsi sfuggire.

Il Piemonte, seconda casa

Il cuore di Giuseppe però non è solo siciliano, ma anche piemontese. Infatti, come racconta nella sua intervista, da giovanissimo Giuseppe si è traferito a Torino dove ha conseguito il diploma di piano al Conservatorio. E proprio da questa regione “adottiva” arriva come novità la cantina Travaglini nata a Gattinara nei primi anni del ‘900. Sulle orme del padre, è poi Giancarlo Travaglini nel dopoguerra ad avviare la produzione sulla strada della modernità arrivando a livelli di altissima qualità per l’uva Nebbiolo che sigilla nell’iconica bottiglia “storta” da lui brevettata. Una bevuta appagante e – perché no – un insolito souvenir dalla vostra vacanza a Lampedusa. 

E come esiste la “dark face of the moon”, esiste anche la “white face of Piemonte” ed è il Timorasso. Un nome curioso, probabilmente derivante dalla parola timido in dialetto, per una varietà che timida lo è davvero, o per lo meno lo è stata a lungo prima di essere riscoperta agli inizi degli anni ’90 da alcuni viticoltori. Fra tutti, essenziale alla promozione di quest’uva, è stato il lavoro di Walter Massa e dell’omonima cantina Vigneti Massa. Vini intensi ed espressivi, di quelli da dimenticare in cantina, perché è il tempo il miglior alleato di ogni Timorasso. 

Cantina vini da collezione a Lampedusa: ristorante Cavalluccio Marino

I nuovi ingressi, mare e monti

Sempre alla ricerca del vino bianco perfetto si iscrive l’ingresso nella carta del vino 2023 la famosa e pluripremiata realtà vinicola altoatesina di Elena Walch che oggi, ad oltre 150 anni dalla sua fondazione, è guidata dalle figlie Julia e Karoline. Parola d’ordine di Elena Walch è sostenibilità, quella fatta di obiettivi concreti e risultati misurabili in vigna, in cantina, nell’imballaggio e nella vita di tutti i giorni della grande squadra impegnata al lavoro. Risultati reali che si sentono nei vini, magistralmente traduttori del loro territorio: lineari, acidi, spigolosi ma mai scontrosi. L’anima della montagna che voi potrete gustare a due passi dal mare.

Dalla Russia con amore? Non per Giuseppe Costa che preferisce invece portare una novità, dalla Costa d’Amalfi con furore. Sì, perché proprio nel piccolo comune di Furore, in provincia di Salerno, Marisa Cuomo ha scelto di produrre i suoi vini. Furore, come quello del mare che si scontra contro le rocce di un fiordo estremo dove animali, alberi, case e persone vivono come aggrappati alla terra, a picco sul mare. Sono “unghie di spazio” quelle lasciate alla viticoltura sulla costa, vigneti terrazzati, raggiungibili solo a piedi e lavorabili solo a mano. Una viticoltura eroica, mossa solo dalla passione che si vibra dentro ai vini di Marisa, elettrizzandoli di iodio e frutta matura. 

Cantina vini a Lampedusa: ristorante Cavalluccio Marino

Verso l’estero ed oltre

Come ci ha raccontato nel suo Giro del mondo in 80… etichette, la passione di Giuseppe per il vino supera agilmente i confini nazionali tanto che la carta del Cavalluccio conta un’ampia sezione dedicata alle etichette internazionali. 

Le novità vedono come protagonista la Francia con due realtà in particolare. La prima è la Maison Regnard che dal 1860 gestisce varie tenute in Borgogna tra Côte d’Or, Chablis, Pouilly Fussé e Maconnais. Le due etichette che troverete nella cantina Diapason rappresentano un vero derby borgognotta: da un lato Chablis Grand Regnard, dall’altro Terres Blanches con le uve del prestigioso cru Mersault in Côte d’Or. Agrume e zagara da un lato, pesca e vaniglia dall’altro in uno scontro titanico alla ricerca dello Chardonnay perfetto. 

La seconda, invece, è l’iconico Château de Beaucastel nel territorio meridionale della Côtes du Rhône dove si abbandona l’essenzialità della vinificazione in purezza per abbracciare lo stile dell’uvaggio. L’etichetta Coudoulet de Beaucastel deriva infatti dal sapiente taglio tra varietà più o meno note della zona come Bourboulenc, Marsanne, Viognier, Clairette Blanche. Un vino espressivo ed emozionante capace di impreziosire ogni occasione non solo per il suo gusto, ma soprattutto per la sua rarità che farà impazzire i più scettici intenditori!

E per finire, il dolce! Sì, ma di vino, ovviamente, come il Tokaji Aszù prodotto in Ungheria dall’artigiano Samuel Tinon. Un particolare gioco microclimatico permette in questa zona la formazione sull’uva autoctona Furmint della “muffa nobile” capace di favorire l’appassimento degli in pianta, per un vino naturalmente dolce, ovvero ottenuto senza l’aggiunta di zuccheri. Perfetto al momento del dessert, ma se non siete amanti provatelo sui formaggi erborinati, si sa che gli opposti si attraggono! 

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Vini di Sicilia: c’era una volta un palmento

<<Dalla Toscana, fino ad un antico palmento nel cuore del Barocco siciliano. I vini di Feudi del Pisciotto sono un’armonia di tradizione, eleganza e stile. >>

“Andate a Noto, datemi retta, questo è un luogo che, se uno ci capita, resta intrappolato e felice, chi lo muove più”. Con queste parole lo scrittore siciliano Gesualdo Bufalino invitava i lettori a far visita al suo pezzo di Sicilia: la Valle di Noto. Questo lembo sud-orientale dell’isola, perla del Barocco e riconosciuto Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, affascina il visitatore anche per i tanti prodotti enogastronomici che ha da offrire. È il caso di Feudi del Pisciotto che, investendo proprio sul grande potenziale della Valle, porta in bottiglia vini che sono armonia liquida di tradizione, eleganza e stile.

Scopriamo insieme quale etichetta scegliere dalla cantina del Ristorante Cavalluccio Marino di Lampedusa!

Ristorante Cantina Vini di Sicilia - Feudi del Pisciotto al Cavalluccio Marino Lampedusa

C’era una volta un vecchio palmento

Nel cuore del barocco della Val di Noto, a pochi chilometri da città mozzafiato come Catania, Modica, Ragusa, Scicli e ovviamente Noto, si trova il paese di Niscemi. È qui che, dal recupero di un antico feudo settecentesco, il giornalista Paolo Panerai – già proprietario della cantina Castellare di Castellina nel Chianti Classico – inaugura nel 2002 il Wine Relais Feudi del Pisciotto. Il nome rimanda alla Riserva del Pisciotto, in cui è immerso: luogo dalla ricchissima biodiversità e intriso di storia, come testimonia il palmento di epoca romana ritrovato all’interno del feudo.  

Di cosa si tratta? Il palmento è la più arcaica struttura atta a trasformare l’uva in vino: una vasca in pietra, spesso scavata nella roccia, nella quale veniva depositata l’uva appena vendemmiata e dentro la quale i vendemmiatori proseguivano il lavoro pigiandola con i piedi. Un foro apribile, posto alla base del palmento, permetteva poi la ricaduta del mosto per la sola forza di gravità all’interno dei recipienti dove proseguiva la vinificazione. Diffusi in tutto il bacino del Mediterraneo, dalla Georgia al Portogallo, in Sicilia ogni vigna aveva il suo palmento e fino ad un passato molto recente questo tipo di rudimentale strumento è stato l’unico utilizzato per la produzione del vino. 

Stimolati dal fascino ancestrale di un simile reperto archeologico, Feudi del Pisciotto ha scelto di non abbandonare il palmento, ma anzi di restaurarlo e renderlo funzionale, affiancandolo in cantina alle più moderne tecniche e macchinari per la vinificazione, al fine di offrire un vino di tradizione, ma anche di eccezionale qualità. 

Un vino da passerella

Feudi del Pisciotto si estende per 45 ettari, nella prima fascia collinare fra Caltagirone e Piazza Armerina, all’interno della DOCG Cerasuolo di Vittoria. La visione di questa azienda è stata da subito la volontà di ereditare tutta la sapienza del passato enologico millenario nella Val di Noto e di onorarlo mediante sapienti lavorazioni in vigna e in cantina. 

Le uve aziendali sono soprattutto Nero d’Avola, il re dei rossi siciliani, poi Frappato, vitigno della DOCG Cerasuolo di Vittoria, e Grillo, una delle bacche bianche più apprezzate della Sicilia. Accanto a questi autoctoni, anche internazionali come Cabernet Sauvignon, Merlot, Chardonnay, Gewürztraminer, Semillon, e da alcuni anni il Pinot Nero. 

La vendemmia è manuale e le uve vengono mosse in cantina con la sola forza di gravità permettendo da un lato di ridurre lo stress sugli acini – incrementando la qualità del vino – dall’altro di risparmiare energia riducendo l’impatto aziendale sull’ambiente, oggi più che mai fondamentale. 

Alla linea base Fico, dal 2007 si affianca la Linea Feudi del Pisciotto con l’ambizioso intento di coniugare due grandi eccellenze italiane: il vino e la moda. Autentici vini da passerella, alla cui qualità si unisce la bellezza delle etichette disegnate ad hoc dai più importanti fashion designer italiani come Versace, Missoni, Blumarine, Gianfranco Ferré, Giambattista Valli, Carolina Marengo.

Il preferito di Giuseppe Costa?
Certamente il Grillo Carolina Marengo, l’uva bianca del cuore per Giuseppe. Nato nel 1873 a Marsala dall’incrocio botanico tra lo Zibibbo e il Catarratto, il Grillo rappresenta una quintessenza della sicilianità: giallo carico, equilibrata aromaticità di zagara e agrumi, marcata sapidità e acidità. La versione Carolina Marengo eleva queste caratteristiche attraverso un affinamento in piccole botti di legno. Il risultato? Un bouquet che amalgama l’agrume al miele e trasporta in un gusto minerale, ingentilito da interessanti note burrose e vanigliate. Un Grillo molto gastronomico a cui dedicare tanta curiosità e tanta sete.

Ristorante Cantina Vini di Sicilia - Feudi del Pisciotto al Cavalluccio Marino Lampedusa

Un Pinot Nero per l’arte

L’impegno per la valorizzazione del territorio in cui si trova Feudi non si ferma solo alla produzione di vini di altissima qualità. Con i proventi dell’azienda e con il sostegno dei grandi nomi dell’alta moda italiana che contribuiscono alla creazione delle etichette, il fondatore Paolo Panerai ha scelto di finanziare il restauro di alcune importanti opere d’arte sul territorio siciliano.

Proprio al restauro del gruppo scultoreo seicentesco de L’Eterno del Serpotta, custodito a Palermo nell’Oratorio dei Bianchi nella Kalsa, è stato dedicato il vino più rappresentativo dell’intera gamma di Feudi, il Pinot Nero L’Eterno, la cui etichetta rappresenta un dettaglio della mano divina scolpita dall’artista. 

L’Eterno fa parte della linea Gran Cru, per la quale vengono utilizzate solo le uve provenienti dai vigneti più vocati dell’azienda, e da una intuizione di Giacomo Tachis, grande conoscitore delle potenzialità di questo vitigno francese e capace di indicarne i migliori metodi di coltivazione e lavorazione nel terroir caldo della Sicilia sud-orientale. 

Giuseppe Costa, ne conserva in cantina diverse annate, ognuna a suo modo impeccabile. Colore rubino carico, naso delicato di viole, ribes e lampone, con un accenno di spezie e tabacco date dall’affinamento in legno e infine un sorso morbido, lievemente tannico e molto elegante. Un vino da scegliere magari all’inizio dell’autunno, quando il sole torrido del giorno lascia spazio a sere più fresche.

Ristorante Cantina Vini di Sicilia - Feudi del Pisciotto al Cavalluccio Marino Lampedusa

Tirsat. L’ultimo nato, a due passi dal mare

La Sicilia non è solo un’isola, ma un continente a sé, e il fascino di Panerai per questo territorio lo ha spinto ad esplorarne le tante sfaccettature, portandolo fino a Porto Palo, antico porto di Selinunte, dove è possibile visitare il parco archeologico più grande d’Europa. 

Qui, in appena due ettari di vigneto che si estende fino alla spiaggia, è nata da qualche anno la costola “marina” del Domini Castellina, Gurra di Mare, dal nome del torrente che scolpisce la valle e sfocia nel mare. Simbolo aziendale è la palma, protagonista assoluta del paesaggio di questa parte di Sicilia, ed ora messa a dura prova dagli attacchi mortali del punteruolo rosso, e per questo una parte dei profitti di Gurra di Mare è direttamente investito per la ricerca universitaria di metodi efficaci nella lotta contro questo parassita.  

Primo vino prodotto da Gurra è il Tirsat, da Tirsat abi Tawr ovvero il nome in arabo per Porto Palo, a ricordare la commistione di culture che è tratto essenziale di queste coste selvagge. Blend di due iconiche varietà francesi – Chardonnay e Viognier – il Tirsat è un vino bianco giocato sull’equilibrio tra mare e terra, tra sale e vaniglia, grazie alla lavorazione – sempre di ispirazione francese – con frequenti batonnage in barrique. Un vino non solo ricco ed elegante, ma la cui profonda sicilianità si mescola ad una visione più internazionale, rendendolo il perfetto biglietto da visita di questo ultimo lembo d’Italia, affacciato sul Mediterraneo.

Ristorante Cantina Vini di Sicilia - Feudi del Pisciotto al Cavalluccio Marino Lampedusa
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Fongaro – Alle radici di un metodo… classico

Scopriamo questa piccola realtà nei Monti Lessini e la giovane donna che la sta facendo crescere.

Dal 1975, in Veneto, sui Monti Lessini, solo Durella Metodo Classico. Questa la visione della cantina Fongaro, oggi portata avanti dalla giovane filosofa Tanita Danese. Un vino che con semplicità e determinazione arriva al cuore di chiunque lo assaggi. Come è arrivato nel cuore di Giuseppe Costa, che propone l’intera gamma Fongaro nella carta del Ristorante Cavalluccio Marino di Lampedusa. Allora non resta che scoprire quale etichetta aprire!

Un territorio vocato

Una parola caratterizza la filosofia della cantina Fongaro: radici. Quelle di una famiglia, originaria di Roncà, in provincia di Verona. Quelle delle sue vigne, che affondano in un territorio dalla storia antichissima.

I terreni aziendali si sviluppano per circa sette ettari, in parte all’interno del Parco Naturale Regionale della Lessinia, e sono vitati con solo varietà a bacca bianca autoctone di queste valli. Anche se nulla oggi è rimasto attivo e visibile, la fertilità e la caratteristica formazione rocciosa del terreno di questi vigneti sono testimonianza di un’antica attività vulcanica. Infatti, le eruzioni sottomarine avvenute durante l’era Terziaria hanno reso i terreni molto permeabili e ricchi di sostanze quali fosforo, magnesio e potassio, perfetti per una crescita sana e robusta della pianta e capaci di esaltare mineralità e acidità nel frutto.

Il biologico prima di tutto

Per preservare al meglio l’integrità e la salubrità di questi suoli, dal 1985, Fongaro ha intrapreso con la strada della coltivazione biologica, una delle prime aziende in Veneto a farlo.

Cosa significa nella pratica? Bandire gli agenti chimici sintetici in vigna e in cantina durante la produzione. Rispettare i cicli di vita naturali senza forzarli. Ridurre l’impatto aziendale sull’ambiente e adoperarsi quotidianamente nella tutela dell’ecosistema. Un processo complesso, controllato in ogni fase da organismi competenti che ne attestano l’elevato standard e l’ottemperanza agli obblighi di legge. Molte le carte da compilare, un vero lavoro nel lavoro per l’azienda. 

Perché dunque farlo? Risponde Tanita Danese, oggi ultima generazione alla guida dell’azienda familiare: “Perché non siamo disposti a scommettere sull’alta qualità dei prodotti che offriamo o sul futuro del nostro meraviglioso territorio. Vogliamo puntare tutto sull’aspetto agronomico, sul campo, perché questa è la parte più importante: se lavori bene con la vite, il lavoro in cantina è in discesa».

Durella in purezza: la visione di Guerrino

La Durella è un vitigno a bacca bianca il cui nome suggerisce una delle sue principali caratteristiche, la buccia spessa che rende le uve consistenti e robuste, “durelle” appunto. Poi, scheletro minerale e spinta acida: ecco l’identikit di un acino di Durella. 

Autoctona da secoli dei Monti Lessini e considerata da molti, per la sua acidità, un vitigno montanaro, rustico, la Durella venne via via abbandonata a favore di varietà più redditizie come la Glera, più delicate come la Garganega o più di moda come lo Chardonnay e il Sauvignon.

Nel 1975, il fondatore Guerrino Fongaro, contro ogni logica di mercato, scelse di puntare tutto su questo vitigno. Una visione inedita, che generò critiche e scetticismo, ma oggi non più come racconta la sua erede, Tanita Danese: «Guerrino ci credeva, in un periodo in cui nessuno la voleva assaggiare: è stato un visionario e ha dato all’azienda, e oggi a noi, un grande vantaggio.».

La visione di Guerrino non si fermò però solo all’uva, ma anche alla sua trasformazione. Bisognava andare oltre il vecchio Durello fermo, aspro e selvatico. Un solo modo poteva valorizzare al meglio le caratteristiche della Durella: il Metodo Classico Tradizionale.

La guida di Tanita

Oggi le redini dell’azienda sono nelle mani della giovane Tanita Danese. Cresciuta a Roncà, un’infanzia e un’adolescenza passata tra i vigneti, Tanita sceglie di studiare Filosofia in città. Ma proprio quegli studi molto amati si sono rivelati per lei una “molla di propulsione” per tornare indietro e seguire la strada di chi l’ha preceduta, con uno sguardo sempre aperto sul mondo. 

La sua idea? Migliorare sempre. In vigna, lavorando sempre meglio sulle rese per ettaro. In cantina, investendo in macchinari e tecnologie mirate alla qualità. Sempre nel nome del biologico, fiore all’occhiello dell’azienda dal 1985. Una squadra giovane, entusiasmo per il proprio territorio e i suoi prodotti unito alla voglia di sperimentare: questi gli ingredienti scelti da Tanita per far innamorare tutti della Durella, così come se ne innamorò lei, fin da bambina. 

Fongaro Metodo Classico: from Lessini to Lampedusa

Durella è il vitigno, Durello è il vino. Il vino bianco da uve Durella è un vino sapido, minerale, dall’acidità importante. Su questi pilastri si fonda la sua longevità sorprendente, che scolpisce il vino di carattere e di profondità. Questa la formula chimica – ma anche un po’ magica – che dette coraggio a Guerrino Fongaro nel credere nel Durello come base eccellente per la spumantizzazione con Metodo Classico e nel decidere di produrre solo e soltanto questa tipologia di vino. Ma in cosa consiste nel dettaglio?

Si parte da una vendemmia accurata, con i grappoli raccolti a mano che vengono riposti in piccole cassette per evitare lo schiacciamento. All’arrivo in cantina la pressatura avviene in maniera soffice e la prima fermentazione si svolge in vasche di acciaio o cemento. Successivamente, il vino viene imbottigliato con l’aggiunta di zuccheri e lieviti per avviare la seconda fermentazione in bottiglia. Le bottiglie vengono accatastate in orizzontale per l’affinamento in cantina: ora l’unico ingrediente rimane il tempo.

Fongaro spumante - Cantina Ristorante Cavalluccio Marino Lampedusa
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Si va da minimo di 40 mesi per gli spumanti Fongaro Etichetta Viola e Etichetta Verde (già definibili riserve, avendo superato i 36 mesi da disciplinare), fino ad un massimo di 9 anni. Al momento giusto, le bottiglie vengono portate in verticale su cavalletti chiamati pupitre per concentrare i residui solidi della seconda fermentazione nel collo della bottiglia. Saranno poi eliminati congelando il collo della bottiglia e lasciando che la pressione del vino provochi l’espulsione della parte congelata una volta tolto il tappo. Ancora qualche mese di assestamento in cantina e poi la classe e l’eleganza del Metodo Classico di Fongaro è pronto per volare… from Lessini to the world!

Una delle destinazioni degli Spumanti Fongaro è il Ristorante del Cavalluccio Marino di Lampedusa.
Affidatevi ai consigli di Giuseppe per scegliere l’etichetta giusta da stappare: potreste coccolarvi con il Brut o il Pas Dosè in ogni momento della vostra vacanza e abbinare invece una delle Riserve – la Riserva Brut in cui cercare la firma stilistica di Fongaro o la Riserva Pas Dosè in cui ricercare invece le sfumature dell’annata – ad un crudo di mare dalla cucina di Giovanna Billieci.

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Il giro del mondo in 80… etichette!

Vi ricordate da bambini quando si faceva girare il mappamondo e, tenendo gli occhi chiusi, lo si fermava con il dito? Il gioco stava nell’aprirli, gli occhi, e vedere in quale angolo di pianeta si fosse capitati. Ovunque puntasse il dito, la nostra fantasia di bambini inseguiva il sogno di quel viaggio esotico. 

Da adulti si dice che si abbandoni il mondo dei giochi, ma forse se ne trovano solamente altri, diversi. Nuovi espedienti per continuare a viaggiare con la fantasia, per allontanare i lunedì in ufficio e costruire una parentesi di leggerezza dalla routine. Non è per questo che sogniamo una vita in vacanza e ogni anno studiamo l’incastro perfetto dei giorni rossi del calendario? 

Ristorante cantina vino internazionale, vini del mondo a Lampedusa

Con il vino, una vacanza dentro la vacanza

La vacanza è il gioco degli adulti. Si viaggia alla ricerca di una felicità diversa, in un luogo lontano da casa. Il ristorante Cavalluccio Marino, nella meravigliosa isola di Lampedusa, è fedele alleato di chiunque sia alla ricerca di evasione, relax, piacere dei sensi. Ogni dettaglio è studiato per il riposo e il divertimento degli ospiti, a partire dal menù stagionale e siciliano ideato da Giovanna Billeci. E con il vino? Si gioca ancora di più! Una volta a tavola, infatti, sfogliando l’ampia carta dei vini selezionata da Giuseppe Costa, si avrà la sensazione di vivere una vacanza dentro la vacanza.

La carta del vino del Cavalluccio Marino di Lampedusa è, nelle mani di chi si accomoda al tavolo, come quel mappamondo di quando si era bambini. Strumento di approfondimento e scoperta, raccolta di grandi territori e nuovi mondi. Non resta che allacciare le cinture e liberare la voglia di conoscere, sfogliando le pagine e puntando il dito ad occhi chiusi, chissà dove andrete a finire! 

The New World Wine

Come orientarsi nelle oltre 800 etichette selezionate da Giuseppe Costa?  Sono divise in sezioni, a partire dalla tipologia e dal territorio, per facilitarne la lettura. Si parte, forse per prossimità, con l’ampia offerta proveniente da tutta dalla Sicilia. Un’isola continente a sua volta suddivisa in due sottocategorie, i vini dell’Etna e i vini naturali siciliani. Qualche rapida sosta nel bacino del Mediterraneo con vini provenienti da Spagna e Grecia per poi muoversi verso la grandiosità del vino francese tra una ricca selezione di Champagne, Borgogna e Bordeaux. Ed è proprio una volta giunti alla foce della Gironda che il vero viaggio intercontinentale alla scoperta del vino del Nuovo Mondo. 

I vini prodotti nel Nuovo Mondo. Ma nuovo rispetto a cosa? Facciamo un passo indietro. Originaria del Medioriente, la pianta di vite si è diffusa in Europa oltre 3000 anni fa e la produzione di vino è rapidamente diventata abitudine e uso comune in tutto il continente – in particolare in Francia ed in Italia. In paesi come Stati Uniti, Sud America, Sud Africa, Australia e Nuova Zelanda, la pianta di vite, invece, è arrivata solo a partire dal 1700, spesso portata dai flussi migratori dall’Europa. Ecco quindi spiegato: i paesi in cui la produzione di vino è attiva da molto tempo rappresentano il Vecchio Mondo, mentre i paesi con una storia più recente di viticoltura, produzione e consumo vengono chiamati Nuovo Mondo. 

Avete mai assaggiato un vino del Nuovo Mondo? Al Cavalluccio Marino di Lampedusa potreste fare un vero e proprio giro del mondo.

Dalla Napa Valley, a Sud fino a Cile ed Argentina, quindi passaggio a Capo Horn direzione Sud Africa. Ammirato lo scambio tra gli Oceani al Capo di Buona Speranza, si riparte direzione Oceani con le chicche provenienti da Australia e Nuova Zelanda. Ma chi si ferma è perduto e per tornare in Europa si passa dall’Asia con i vini di Armenia e Israele. Vi sta girando la testa? Forse il segreto per non perdere l’orientamento sta nel conoscere queste etichette un po’ più da vicino. 

Registi americani, migranti baschi e medici australiani

Citando Don Vito Corleone ne Il padrino, al Cavalluccio Marino di Lampedusa Giuseppe Costa potrebbe farvi “un’offerta che non potrete rifiutare”. Ovvero bere i vini prodotti proprio dal regista di quel capolavoro, Francis Ford Coppola. Sarà merito del nonno che vinificava nello scantinato a New York, ma il vino è un vero e proprio affare di famiglia per Francis che ha passato gli ultimi 35 anni nell’investimento e costruzione della sua cantina ideale in California. Oggi questo luogo è lo Chateau Souverain nel territorio di Sonoma County, soprannominato Francis Ford Coppola Winery, dove vino, arte, cinema ed ospitalità si fondono. La linea più rappresentativa? La Diamond, di cui potrete assaggiare al tavolo lo Chardonnay e il Cabernet Sauvignon entrambi vinificati “alla francese”, con legno e batonnage, in chiaro tributo alla madrepatria di questi due pregiati vitigni. 

L’occasione di degustare un altro grande vitigno internazionale in un territorio d’oltremare può realizzarsi scegliendo l’interpretazione del Sauvignon Blanc de Los Vascos, antica casa vitivinicola a sud di Santiago del Cile, a pochi chilometri dall’Oceano Pacifico, che influenza non poco la mineralità di questo vino. Da trent’anni proprietà di Rothschilld-Lafite, famiglia con secolare esperienza nel mercato del vino, la tenuta oggi porta il nome di Los Vascos – i baschi – in memoria degli originali fondatori, la famiglia basca Echenique, che una volta migrata in Cile scelse di riproporre nel nuovo territorio i vitigni e le tecniche proprie della viticultura francese. 

Ancora una storia familiare si trova andando alle origini di Penfolds, famoso produttore di vino in Australia. Quella che oggi è una realtà di oltre 700 ettari vitati cominciò, infatti, come un piccolo vigneto dell’inglese Dottor Penfolds il quale, convinto delle capacità taumaturgiche della bevanda, vinificava piccole quantità che distribuiva come medicinale ai suoi pazienti. E possiamo dire che il buon dottore non si sbagliava poi tanto: se consumato responsabilmente, un po’ di vino bevuto con la giusta compagnia sa rimettere in sesto il corpo e lo spirito. Al Cavalluccio Marino di Lampedusa potrete brindare alla memoria del Dottor Penfolds con il suo Koonunga Hill, Chardonnay in purezza, esotico e confortante.  

Noè e il Vecchissimo Mondo, un viaggio nel tempo

Non se ne parla molto, ma accanto al Vecchio ed al Nuovo Mondo del vino, esiste soprattutto un Vecchissimo Mondo, da cui tutto è partito. Stiamo parlando di quella porzione di Medioriente che affaccia sul Mar Nero – Georgia, Armenia, Azerbaigian, Crimea, Turchia i principali – luoghi dal clima così perfetto e il terreno così fertile da essere, oltre 6000 anni fa, ecosistema-incubatore per lo sviluppo della vite e della viticoltura. 

Ragioni pratiche come clima e suolo che si mescolano però alla leggenda. Nel racconto biblico, infatti, Noè con la sua arca approdò ai piedi del monte Ararat, nella regione armena dello Vayots Dzor, inaugurando, tra le altre cose, la viticoltura e divenendo il primo vignaiolo della storia. 

Ripercorrendo questi racconti, alla ricerca delle proprie radici, Zorik Gharibian ha scelto di fondare la sua cantina Zorah proprio ai piedi del monte Ararat e di ridare vita alle antiche tecniche di produzione vinicola studiando i reperti e i tanti siti archeologici della zona. Ecco il perché della scelta di vinificare solo varietà autoctone armene e di vinificarle nelle antiche anfore chiamate karas che, essendo oggi fuori produzione, Zorik ha recuperato personalmente dalle case dei vecchi contadini della regione.

Curiosità alle stelle? Non si sa grazie a quale super potere ma Giuseppe nella sua cantina Diapason custodisce alcune bottiglie del bianco di Zorah, il Voski, prodotto da uve autoctone Grandmark e Voskéat. Degustarlo renderà il vostro viaggio in compagnia del vino un vero viaggio a ritroso nel tempo alla scoperta del gusto e della storia di un vino ancestrale. 

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Cantina

L’importanza di chiamarsi Bordeaux

Basta pronunciarlo per evocare in un solo istante un colore intenso, un vino iconico e un territorio unico. Di cosa si tratta? Del nome del Bordeaux!

Il vino Bordeaux è storicamente prodotto nel Sud-Ovest della Francia, nella regione dell’Aquitania dove sorge l’omonima città. Un vino antico, le cui origini risalgono a oltre 500 anni fa, e oggi uno dei più prestigioso al mondo. Inoltre, un vino tanto influente in termini qualitativi ed economici da plasmare a sua immagine e somiglianza il mercato del vino mondiale. 

Un fascino intramontabile, del quale è felice vittima anche Giuseppe del Cavalluccio Marino di Lampedusa che nella sua cantina Diapason conserva rare e pregiate bottiglie che possono fare della vostra vacanza sull’isola un viaggio che non si potrà mai dimenticare. 

Pillole di Bordeaux

Il nome Bordeaux deriva dall’espressione bord de l’eau. È infatti proprio “lungo le acque”, nel punto in cui i fiumi Garonna e Dordogna confluiscono nel grande estuario della Gironda, a pochi chilometri dall’Oceano Atlantico, che è sorta la città di Bordeaux. E ancora l’acqua traccia i confini delle tre aree produttive: la Rive Gauche, alla sinistra della Gironda, la Rive Droite, alla destra della Dordogna e Entre-Deux-Mers, la parte tra i due fiumi. 

In questo territorio, di tradizione celtica, sono stati i romani colonizzatori a portare le prima piante di vite. Le varietà più diffuse sono Merlot, Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc – assemblati in cantina secondo il “taglio bordolese” cui può contribuire una piccola parte di Carmenère e Petit verdot. 

Tipicamente l’affinamento avviene, per molti anni, in piccole botti di legno, chiamate barriques, al fine di ottenere vini fruttati, molto corposi e vellutati. Non solo rosso però. Una piccola, ma molto significativa, parte della produzione bordolese vede l’utilizzo di varietà bianche, soprattutto l’uva Semillon, per la produzione di Sauternes a Sud di Bordeaux.

Giuseppe nella cantina Diapason – Foto: Elisa Piemontesi e Lorenzo Lucca – PLUME

Un mercato di Château

Il debutto mondiale per i vini bordolesi è arrivato nel corso del Medioevo quando, grazie al matrimonio tra Enrico II d’Inghilterra e Eleonora d’Aquitania e alla posizione strategica della città per i traffici navali, il mercato del vino di Bordeaux si apre all’esportazione oltremanica. 

Tra il XVII e il XVIII secolo si sviluppa la figura del négociants. Intermediari inglesi, olandesi, belga e tedeschi si occupavano dell’acquisto di grandi partite di vino e del loro assemblaggio per l’esportazione. Ed è proprio ai negociants a cui si rivolge Napoleone per richiedere una classificazione dei vini di Bordeaux in vista dell’Esposizione Universale del 1855. Per questa ragione, quello bordolese è l’unico sistema di classificazione al mondo a basarsi sul prezzo di acquisto del vino e sul prestigio degli Château – senza alcun riferimento alla vigna di provenienza.

Furono definite cinque categorie per i vini rossi – dai Premiers ai cinquièmes Crus – concentrati nella regione del Medoc, fatta eccezione per lo Château Haut-Brion di Graves. Per i Sauternes vengono inidcate due categorie, fatta eccezione per un Premier Cru Supériuer, il celebre Château d’Yquem. 

A causa dell’epidemia della fillossera ci furono anni difficili per il mercato bordolese, poi attorno al 1950 nuove classificazioni vennero introdotte per i territori della Rive Droite e il mercato si avviò verso una generale ripresa, dopo le due grandi guerre. 

È il 1982 l’anno decisivo per l’iscrizione dei vini di Bordeaux nell’Olimpo della viticoltura. Il millesimo 1982, svalutato dalla critica enologica coinvolta in prima persona nella produzione o nella commercializzazione dei vini, venne invece definito come “superbo” da un critico indipendente ai giochi di mercato bordolesi: Robert Parker, avvocato statunitense, editore della rivista The Wine’s Advocate. 

I punti parker facevano schizzare alle stelle il prezzo dei vini, tanto da indurre altri produttori ad imitare il gusto di Parker. Si andava creando il fenomeno della parkerizzazione, che da quel momento avrebbe per sempre cambiato il mercato e il gusto del vino “worlwide” e consacrato il nome del Bordeaux come miglior vino al mondo. 

I miglior Château al Cavalluccio Marino di Lampedusa

Affascinato da un vino tanto prestigioso e tanto capace di lunghissimi invecchiamenti, Giuseppe Costa ha collezionato negli anni bottiglie rarissime provenienti dai migliori Château bordolesi. 

Qualche esempio? Partiamo da Château Latour, eccellenza della regione dell’Haut-Medoc. Situato sulla sponda sinistra della Gironda, a nord di Bordeaux, il territorio del Medoc è la patria del Cabernet Sauvignon, tagliato in parti minori con Merlot e Cabernet Franc. Il clima caldo e umido, la forte illuminazione e i terreni argillosi scolpiscono vini dal carattere potente e imperituro. Già contemplato come Premier Cru nella classificazione napoleonica del 1855, Château Latour si trova a Pauillac ed è oggi proprietà della famiglia Pinault. Dei 78 ettari vitati dell’azienda, 47 vanno a costituire “l’enclos” ovvero la vigna originaria dedicata al Gran Vin di Latour che potete assaggiare al Cavalluccio Marino nei millesimi 2006, 2008 e 2012.

Spostandoci più a Sud è obbligatorio da citare Château Margaux, altro leggendario nome del Bordeaux, Premier Cru nella classificazione del 1855. La storia di questa azienda comincia nel XII secolo quando la tenuta era conosciuta con il nome di La Mothe di Margaux. Con il succedersi delle proprietà Château Margaux ha conosciuto un percorso tumultuoso che però non ne ha mai scalfito il prestigio. Dei 265 ettari che costituiscono la superficie della proprietà, 78 ettari sono dedicati alla vite. Il terreno ricco ed argilloso di Margaux definisce il carattere opulento del Gran Vin. Un vino dal fascino intramontabile che potrete regalarvi al tavolo del Cavalluccio Marino di Lampedusa scegliendo di riavvolgere il nastro del tempo fino all’annata 2005 o godendovi la più giovincella annata 2017, magari in formato magnum. 

Unico Premier Cru napoleonico non afferente al territorio del Medoc è Château Haut-Brion, nella regione, a Sud di Bordeaux, detta delle Graves, per le tipiche conformazioni alluvionali del terreno di ciottoli e sassi. Château Haut-Brion rappresenta una delle aziende più antiche dell’intera regione, fondata nel 1525 da Jean de Pontac, subito con la funzione primaria di produrre vino. Assaggiando il Premier Grand Cru Classè (disponibile nella cantina Diapason nelle annate 2006, 2010, 2011 e 2017) vi accorgerete di come il terroir di Graves conferisce ai vini carnosità e concentrazioni meno opulente rispetto ai cugini del Medoc, per arricchirli invece di grande scheletro e verticalità. È infine la mano vinificatrice di Haut-Brion a centrare con la sua sapiente esperienza un vino iconico ed intramontabile dove eleganza e persistenza si fondo in una longevità fuori dal comune.

Ristorante con cantina vini Bordeaux a Lampedusa Sicilia

Sauternes: quando la muffa è nobile

Il territorio di Graves è però noto per custodire un tesoro microbiologico capace di scolpire il mito del vino dolce più famoso al mondo, il Sauternes. Si tratta della muffa Botrytis Cinerea che, per le condizioni climatiche del luogo, sul finire della maturazione, ricopre gli acini in pianta. Una muffa capace di compiere miracoli in vigna, tanto da vantarsi dell’appellativo “nobile” per la sua capacità di favorire l’evaporazione dei liquidi e quindi una concentrazione eccezionale di zuccheri e sapori. 

Quattro secoli hanno modellato la storia dell’unico produttore di vino Sauternes a fregiarsi del titolo Premier Cru Supérieur nel 1855: Château d’Yquem. Due le bacche bianche che concorrono al blend tradizionale del Sauternes, il Semillon per il corpo, gli aromi e la dolcezza, il Sauvignon per l’acidità che permette a questi nettari di superare il secolo di vita. Per un’occasione speciale chiedete a Giuseppe una bottiglia degna dei più accaniti collezionisti: Châteaux d’yquem 2007 nel formato da 3 litri. 

Ristorante con cantina vini Bordeaux PETRUS Lampedusa Sicilia

Château Petrus, la leggenda di un escluso

Sulla sponda destra della Dordogna – la Rive Droite del Bordeaux, detta anche Libournais – tra una moltitudine di paesini circondati da impeccabili vigne di Merlot, si trova il comune di Pomerol dove ogni anno viene confezionato uno dei vini più cari al mondo, senz’altro il più caro del Bordeaux: Château Petrus.

Merlot in purezza dall’eleganza e dalla longevità ineguagliabili, la leggenda del Petrus custodisce però alcuni aneddoti curiosi. Innanzitutto, Pomerol non era neppure citata nella famosa classificazione napoleonica 1855 e per anni è stata considerata una zona di serie B all’interno del comprensorio bordolese. L’azienda, inoltre, avviata nel 1920 da Madame Loubat, non ha una storia antichissima alle spalle e per di più sul territorio aziendale non sorge alcuno Château vero e proprio.

Dove nasce dunque la grande leggenda di questo “escluso”? Petrus è figlio di un terroir dalle caratteristiche uniche, distinte da quelle di altri territori limitrofi, e di un estremo perfezionismo in vigna, ancor prima che in cantina. Ad esempio, per la vendemmia delle uve viene ingaggiato un grande numero di persone (oltre le 200, si dice) in modo che tutte le uve dell’azienda – che ora si estende su circa 12 ettari – arrivino in cantina in un breve arco di tempo e siano quanto più omogenee tra loro. 

Petrus: un self-made wine, che può ringraziare solo se stesso per il suo successo eterno. Godere di una bottiglia non è dunque cosa da tutti i giorni.

Vale dunque la pena avvertire i più curiosi ed avventurieri bevitori che la cantina Diapason al Cavalluccio Marino di Lampedusa potrebbe custodire qualche bottiglia. Chiedere per provare!